Ringrazio Sergio Mancinelli per aver ospitato questo articolo sul suo blog de Il Fatto quotidiano. La riproduzione su altri siti internet  è da ritenersi una copia non autorizzata del presente articolo.
Un concerto rock, blues, jazz, folk e un po’ progressive. Aggiungete un nome che sembra mitologico ma è più che reale, la gestualità e la passione di un istrionico scozzese che suona il flauto in equilibrio su una gamba e lo scenario dell’anfiteatro di Ostia antica in una calda e limpida serata di luglio. La somma fa Jehtro Tull, uno dei gruppi più originali in circolazione dal 1967, tanto originale da  essere etichettato come progressive nonostante l’opinione contraria del suo leader, tanto originale  da vincere un premio come miglior disco heavy metal nel 1987.
Oramai specializzato nel vedere i tour geriatrici delle bands che amo (in fondo ai loro tempi d’oro non ero ancora nato), quest’anno mi vedo i Jethro Tull nella splendido scenario di Ostia Antica.
L’appuntamento con Elisabetta è alle 19.30 al Circo Massimo; fortunatamente la via
del mare è libera e in meno di un ora siamo a Ostia Antica. Una suggestiva breve passeggiata nell’area archeologica precede l’arrivo al teatro: sembra di tornare nel
passato e il brano di apertura del concerto vuole consacrare la mia impressione.

Gli anni passano per tutti, soprattutto per chi suona da 45 anni ed è in tour perenne (secondo anno di fila a Ostia Antica, ennesimo in giro per l’Italia).
L’impatto con la voce di Ian Anderson su Living With the Past è un po’ brusco per chi, come me, l’ha sempre sentito dai dischi. Il tono nasale e l’accentuata aspirazione (talvolta quasi un singhiozzo) dà l’idea di chi sia un po’ in affanno. Ma questo si perdona senza difficoltà perché la presenza scenica e quel timbro da cantastorie, quell’aura da icona grazie alla simbiosi con un flauto mai stato così dirompente prima e dopo di lui,  per non parlare del fascino scozzese che su di me sfonda un portone sempre aperto, rende tutt’oggi il concerto dei Jethro Tull imperdibile. E poi, ricordiamolo, Ian  tra pochi giorni compirà 64 anni (è nato il 10 agosto 1947), ed è tuttavia  in ottima forma fisica. Insomma lo vedi e lo immagini 40 anni fa. Non si può non volergli bene, a  Ian.
La scenografia è pressoché inesistente, perché c’è l’area archeologica decorata dalle luci del palco. Della band originaria resta ben poco e la scena è ovviamente rubata da Anderson con il supporto dell’ottimo chitarrista Martin Barre, stile poco vistoso ma pulito e impeccabile, mentre il bassista David Goodier si confonde con le colonne del back stage, sia perché è un po’ defilato sia perché se ne sta immobile per tutto lo spettacolo. Il batterista Doan Perry fa il suo buon lavoro, nascosto com’è tra i suoi tamburi, e distrugge almeno due paia di bacchette. E infine c’è il tastierista Jon O’Hara che, anche ad occhio miope come il mio, è il più giovane della band.
Il meglio Ian lo dà con il flauto traverso che all’occasione fa le veci della seconda chitarra (che pur l’”ex chitarrista” suona spesso e volentieri), di una armonica o di una tastiera dei tempi prog. Non mancano i brani lunghi e impegnativi: ottimi Thick
as a Brick, 
il pathos in
Budapest  e Farm on The Freeway (che a me ricorda qualche suono di “Love Over Gold” dei Dire Straits),  ma l’applauso più lungo lo strappa  Boureée, nonostante le scuse per oltraggio porte da Ian al maestro Bach.
Elisabetta avrebbe preferito stare a saltellare sotto il palco, ma per me la teatralità di Ian e i suoni della sua musica si apprezzano molto bene comodamente seduti in una bella platea.
110 minuti di concerto che scorrono tutti d’un fiato tra ritmi travolgenti e atmosfere da acquerelli di fine 800 come Mother Goose, uno dei tanti brani eseguiti da Aqualung, forse il più noto degli album (ne ho contati otto: oltre a quelli citati ci sono Up To Me, Hymn 43, Wind Up, Crossed Eyed Mary). Ma Aqualung, che può essere la degna conclusione dello spettacolo, cede l’onore della chiusura di sipario al bis di Locomotive Breath, che include un piccolo passaggio di Teacher inserito nel lungo assolo strumentale.
La band saluta, noi anche, in piedi ad applaudire. Ma il concerto ti resta nella testa e nell’umore rilassato, sei ancora fuori dal tempo. Co
sì da qualche giorno mi ritrovo a fischiettare il flauto in Thick as a Brick oppure l’ultima strofa dello spettacolo, il mio augurio per Ian e i suoi amici:
..and the train won’t stop going,  no way to slow down!”